Curatore/i: Massimo Ferrari, Claudia Tinazzi con Annalucia D'Erchia
In una società razionale c’è soltanto una questione di priorità; e nessun servizio tranne quelli che si riferiscono all’alimentazione e alla protezione della vita umana, deve avere priorità sull’educazione.
Herbert Read
Forse una delle chiavi più efficaci per arrivare a corrette proiezioni future nell’ambito dell’architettura scolastica sta forse nella condivisione delle tante componenti interdisciplinari che concorrono a definire la complessità di un tema civile tradotto in architettura; caratteri diversi che rendono complesso l’argomento da interpretare, nel caso che stiamo affrontando, quello dell’educazione.”. Una priorità quella educativa che ha da sempre sollecitato una riflessione sulle architetture ad essa dedicate.
La rivoluzione dello spazio dell’apprendimento, inteso come evoluzione del concetto di educazione nella sua accezione progettuale, quantomeno nelle sue linee ideali inizia in Italia con Ciro Cicconcelli, architetto romano, vincitore del concorso bandito del 1949 per le scuole all’aperto e nominato nel 1958 direttore del Centro Studi per l’edilizia scolastica istituito dallo stesso Ministero della Pubblica Istruzione. Un tavolo di lavoro – quello del Centro Studi – condiviso da architetti pedagogisti, medici, amministratori, nato coraggiosamente per riscrivere la normativa riferita all’edilizia scolastica e saldamente guidato da Cicconcelli, soprattutto per riflettere sul fondamentale passaggio dal concetto di “istruzione-insegnamento” a quello di “educazione”.
“La progettazione di una scuola moderna”scrive Cicconcelli “deve nascere soprattutto dalla ricerca di uno spazio idoneo psicologicamente, oltre che funzionalmente, allo svolgersi dei problemi educativi. Bisogna cioè intuire e quindi realizzare, degli spazi capaci di favorire le tendenze del fanciullo e rendere questi efficaci; bisogna realizzare degli spazi che accompagnino il bambino nella sua crescita biologica e psichica, il bambino deve stare al centro della ricerca di uno spazio scolastico del nostro tempo.”
Lo sguardo attento e appassionato all’esperienza di Darmstadt e al modello di scuola proposto da Hans Scharoun nel 1951 è la possibilità, per il Centro Studi e il suo direttore, di ridiscutere il concetto di aula fino ad allora consueto, immaginando e sperimentando la composizione dello spazio per l’apprendimento a partire dalle possibilità di azione della comunità di bambini e insegnanti.
“Le aule per un processo di osmosi che si stabilisce non soltanto tra insegnanti ed alunni, ma tra gli alunni stessi, quando si incontrano in una funzione pedagogica affine, dovrebbero essere accoppiabili e passibili di essere trasformate con facilità; trasformazioni, anche totali, organiche con lo stesso arredamento costituito con materiali scomponibili e trasportabili”. Parole che ancora oggi sembrano visionarie nell’estrema contemporaneità dei principi; riflessioni che hanno accompagnato una lenta trasformazione spesso rimasta sulla carta o concretizzata solo in pochissimi esempi virtuosi.
Alla scala minore, l’aula scolastica, spazio per apprendere nella più contemporanea interpretazione di un concetto tanto labile quanto profondamente radicato nell’idea di educazione, riporta la discussione alla dimensione originale del problema che vede come principali attori proprio i bambini, e la loro capacità di condividere per la prima volta l’idea di comunità.
Il tema della formazione, nella sua traduzione architettonica rappresentata da istituti scolastici di ogni ordine e grado, è uno degli argomenti centrali della nostra contemporaneità tanto politica quanto civile; fino ai nostri giorni, l’architettura per le scuole ha anticipato, seguito, alle volte in-seguito, trasformazioni sociali, riforme ministeriali, proposte educative, ha da sempre scandito sottovoce la storia del nostro paese. Allo stesso tempo i molti progetti per le strutture scolastiche, dagli asili alle università, hanno saputo scrivere brani importanti della storia dell’architettura, non solo nazionale, rivoluzionando principi consolidati in nome di un’idea vera d’insegnamento, libera da ogni vincolo pretestuoso.
Aule e corridoi, nelle parole di Aldo Rossi che affondano le radici nelle precedenti avanguardie, luoghi per la formazione, dove il rapporto tra gli spazi collettivi e gli spazi singolari, la forma propria dei luoghi dell’insegnamento, la più adeguata idea didattica, costituiscono l’ossatura di un possibile confronto continuo tra i modi di insegnamento e gli esempi in architettura che li hanno meglio interpretati a partire dalle sostanziali letture pedagogiche del Novecento da Rosa e Carolina Agazzi a Maria Montessori fino a Loris Malaguzzi e Mario Lodi.
Il caso italiano racconta, per questa ragione, una storia originale che ben conosciamo, il legame forte o comunque l’interesse diffuso, l’attenzione costante alla ricerca applicata derivata dagli studi pedagogici, ai suoi maestri, ai riconoscimenti internazionali, arricchisce un approfondimento dei temi propri della composizione degli edifici che diviene in parallelo ricerca del valore dell’educazione e degli spazi a essa adeguati. Già all’inizio del secolo scorso Maria Montessori, riferendosi ai luoghi dell’apprendimento, scriveva: “L’educazione è un processo naturale effettuato dal bambino, e non è acquisita attraverso l’ascolto di parole, ma attraverso le esperienze del bambino nell’ambiente.”, ancora Loris Malaguzzi, molti anni dopo sottolineava: “L’atelier (…) ha prodotto un’irruzione eversiva, una complicazione e una strumentazione in più, capaci di fornire ricchezze di possibilità combinatorie e creative tra i linguaggi e le intelligenze non verbali dei bambini”, fino a Mario Lodi, che alla metà degli anni settanta scriveva della necessità di “realizzare una comunità in cui i bambini si sentano uguali, compagni, fratelli”. Ambiente, atelier, comunità, segnano in architettura altrettante possibilità di una ricerca ancora in corso, spazi fisici o forme figurate che con forza centrifuga riescono a generare a partire dall’interno gli edifici scolastici nella propria complessità.
Ancora un esempio antico ci fa da guida. Il modello americano della scuola ad unica classe – one room school – modello esportato in molti altri paesi tra cui l’Austria, la Germania, l’Australia, l’Irlanda, rappresenta un orizzonte figurativo più che un obiettivo della formazione, una suggestione singolare come la sua unicità denuncia. Queste piccole scuole rurali costruite alla fine del ‘800 immerse nella natura, capaci di costruire assieme alla Chiesa, ogni centro cittadino erano composte da un unico spazio e dai pochi luoghi necessari alla vita scolastica, compressi nella loro misura minima: una scala, un ingresso, la stanza dell’insegnamento, i servizi; una sola classe per bambini di diverse età, un solo insegnante per imparare a leggere, scrivere, contare, la storia e la geografia, una grande finestra a est per accogliere la luce. Piccoli edifici dalle forme elementari che spesso nell’immaginario collettivo sono diventati il centro della comunità; luoghi che spesso hanno rappresentato un’idea di società futura come nelle parole di Abraham Lincoln “The philosophy of the school room in one generation will be the philosophy of government in the next”.
Pensare la scuola del futuro non è quindi uno slogan ma la riproposizione nel presente di quegli esempi centrali, quei picchi di sintonia tra le discipline che punteggiano il secolo scorso. Significa – ancora – sicuri della capacità critica del confronto, credere a una generazione di architetti italiani ben consapevoli e capaci di affrontare e far progredire la qualità della nostra architettura. Abbiamo per questo invitato, qualche tempo fa, un gruppo di dodici architetti italiani7, nell’occasione di un evento espositivo alla Triennale di Milano. Dodici architetti impegnati nella ricerca, nell’insegnamento e nella critica della nostra disciplina, appartenenti alla medesima generazione, spinti a immaginare e rappresentare la loro idea di aula per il futuro; dodici spazi diversi per forma, carattere, colore, rapporto con la luce o con la natura, proporzioni e flessibilità, orientamento e possibilità di usi differenziati, sovrapposizioni e scomposizioni di luoghi che nella generalità dei principi compositivi rimandano ad altrettante idee di scuola. Un tentativo concreto e propositivo, nella varietà dei progetti proposti, di immaginare attraverso un confronto aperto le diverse suggestioni, le diverse declinazioni di una ricerca comune. Nella critica che segue l’impossibilità, in questo saggio, di riferirsi ad immagini puntuali e descrittive, permette al lettore – all’interno del racconto – di ipotizzare, a partire dai principi evidenziati, una personale interpretazione figurativa dei progetti esposti8.
Le dieci soluzioni più realistiche escludono, per una minore concretezza, due esempi altrettanto interessanti ma caratterizzati da una riflessione più astratta sulla qualità del luogo dell’insegnamento e il rapporto tra maestro e allievo (Renato Rizzi) o ancora sulla infinitezza della possibilità di somma di spazi concatenati per la didattica (Paolo Zermani); dieci suggestioni fattive per definire più costruttivamente il tema dello spazio per l’insegnamento che vorremmo fosse un contributo corale e condiviso per i luoghi dell’apprendimento del futuro.
La grande attenzione alle nuove tecnologie è uno dei primi interessi rivolti allo spazio innovativo immaginato per gli alunni, un sistema digitale capace di educare nella contemporaneità attraverso l’immersione totale all’interno dei luoghi progettati. Volumi regolari contraddistinti dalla proiezione digitale simultanea su tre lati della stanza rivolta direttamente all’esterno attraverso il quarto frammento. Un’agorà incisa al suolo dove poter stare concentrati nel completo coinvolgimento tra i contenuti proposti; unica speranza l’affaccio alla realtà esterna (Walter Angonese).
La somma di differenti spazi per la vita dei bambini, binati e attrezzati per ottenere una semi indipendenza rispetto ai servizi offerti dalla scuola – la cucina ad esempio – o suddivisibili in quattro unità a partire da un grande spazio collettivo, coincide con la ricerca di altri due differenti scenari proposti. Il primo oltre ad accoppiare due sezioni contigue, legate da un confine di libri, immagina sia verso l’esterno che l’interno spazi accessori, privati per le due sezioni, ma integrabili in un sistema più complesso (Alberto Ferlenga). Il secondo affida alla trasparenza e alla luce filtrata al perimetro il carattere maggiore di un luogo collettivo suddivisibile in quattro parti definito in prima istanza da una evidente copertura metallica (Armando Dal Fabbro). Sempre il tema della luce naturale definisce altre ipotesi disegnate che nella rarefazione dell’illuminazione allo zenith e nella completa apertura e trasparenza a terra trovano la più convincente risposta nel progetto di un grande campus coperto dove lo spazio per l’apprendimento vive di un naturale sviluppo verso un esterno protetto (Luigi Franciosini). Semplicità e facilità di composizione sono i segni distintivi di tanti progetti offerti che in una proposta in particolare si dimostrano efficaci nel definire la singolarità dello spazio dello studio. Solide pareti composte in forma di corte e coperte dall’evidente riconoscibilità di un tetto a falde rendono riconoscibile sia l’unitarietà del modulo minimo che la domesticità del luogo pensato (Stefano Guidarini). La traslata riproposizione di spazialità storiche, riconosciute esemplari per la loro qualità di vita abitata, contraddistingue un differente indirizzo che non immagina alcuna distinzione tra gli spazi dell’apprendimento all’interno delle scuole di “di ogni ordine e grado”. Solo il portato culturale di ogni grado caratterizza fortemente, in questo caso, le diverse identità della formazione attraverso l’iconicità di arredi, colori, opere d’arte – realizzati ad hoc per ogni sezione – che completano gli articolati spazi predefiniti (Eleonora Mantese).
Ancora il tema del territorio proprio e dei servizi necessari distingue un’ulteriore proposta che raccoglie in una centralità esaltata il luogo dell’apprendimento e distribuisce al contorno gli abbondanti ambiti accessori. La proporzione in altezza di questo volume eletto rende riconoscibile lo spazio principale, che trasferisce la luce verticale fino a terra, anche dall’esterno. Una serrata composizione a scacchiera compone la scuola (Bruno Messina). Due esempi alla scala minore affrontano il tema del luogo della prima infanzia seguendo differenti esperienze. La scuola materna nella riconoscibilità delle sue forme elementari segna una prima ipotesi che a partire da un perimetro abitato, dove sono distribuiti gli spazi educativi, definisce un centro pensato come luogo collettivo nel mezzo della geometria planimetrica che, come un cortile coperto, affida ad un grande pilastro/albero il ruolo di sostenere la copertura piana. Un primitivo terreno sociale da immaginare sotto quell’albero (Carlo Moccia). La seconda strada concretizza la relazione stretta tra l’idea di casa e quella di aula scolastica come alla scala maggiore tra scuola e villaggio. L’ambiente costruito, allestito su due piani sotto un domestico tetto a falde, ricorda nei più piccoli gradi di apprendimento un’idea di continuità iconica proprio con la figura dell’abitazione; per la scuola il raggruppamento di singole case si dispone a formare una piccola urbanità (Andrea Sciascia). Da ultima un’esperienza di ricerca maturata in seguito alla possibilità esecutiva di un progetto realizzato, una riflessione sul tema che partendo dalla necessità di ampliamento di una scuola esistente traduce in un principio ordinatore il ragionamento sulla relazione tra collettività e singolarità dello spazio scolastico. Il luogo centrale manifesto, già fulcro esterno della scuola originaria, diventa nel progetto proposto centro effettivo di una comunità che si ritrova nello spazio teatrale baricentro dei due interventi concatenati (Riccardo Campagnola, Mariagrazia Eccheli).
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Abstract e colophon - Mostra - Immaginare la Scuola del Futuro
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Locandina - Mostra - Immaginare la Scuola del Futuro
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